La memoria non è (purtroppo) un vaccino contro il male

La memoria non è (purtroppo) un vaccino contro il male

Folgorati lungo la via di Auschwitz?

La memoria non è (purtroppo) un vaccino contro il male.

di Laura Fontana

Direttore Istituto storico della Resistenza di Rimini

e Responsabile Progetto Educazione alla Memoria del Comune di Rimini

 

A dieci anni dall’istituzione in Italia del Giorno della Memoria, la memoria della Shoah viene commemorata da Istituzioni, scuole e associazioni con un fiorire di iniziative culturali e didattiche, alcune delle quali di grande spessore e originalità interpretativa.

Se nel lontano 1964 furono solamente cinque gli studenti riminesi che ebbero l’opportunità di visitare i campi di concentramento, con il primo viaggio ai lager promosso e finanziato in Italia da una Amministrazione Pubblica, oggi i Treni della Memoria che diverse Regioni promuovono, hanno il merito di condurre ad Auschwitz-Birkenau, – cuore del genocidio degli ebrei europei- contemporaneamente migliaia di ragazzi e ragazze, imitati da altrettanti giovani provenienti da numerosi Paesi d’Europa e del mondo. Da cinque studenti a interi “treni della memoria”, il passo è significativo e va ben oltre il dato numerico, poiché è indice di un lungo percorso di sensibilizzazione e di educazione compiuto da scuole, associazioni e istituzioni insieme, un percorso che, talvolta, può dare risultati eccellenti come quelli, ad esempio, raccolti nel bel libro di Stefania Consenti, Binario 21, Un treno per Auschwitz, edito dalle Paoline, in cui l’autrice, di professione giornalista, tenta con rara sensibilità e onestà intellettuale di dar voce a tutti i protagonisti del progetto (studenti e insegnanti, ma anche ex deportati, sindacalisti e pensionati, storici e specialisti) per trasmettere il senso di un’esperienza sentita come indelebile e straordinaria.

 

Se a tutto questo si aggiunge una gigantesca bibliografia di testi di diversa natura pubblicati in ogni lingua – tanto che nessun ricercatore riuscirebbe mai, da solo, a dominare un catalogo enciclopedico in costante evoluzione e dalle dimensioni smisurate per numero di pagine – parrebbe evidente che l’insegnamento della Shoah e dei crimini commessi durante la Seconda Guerra mondiale sia oggigiorno un fatto assodato.

E invece, moltiplicare i viaggi della memoria e le iniziative sulla Shoah non pare essere una garanzia assoluta di un insegnamento corretto e incisivo della storia del genocidio ebraico, dal momento che – come sostiene a giusto titolo lo storico francese Georges Bensoussan – l’insegnamento della Shoah e dei crimini nazisti non è mai stato fatto tanto bene come oggi. E mai, come oggi, la banalizzazione della xenofobia, del razzismo e dell’antisemitismo ha fatto tanti progressi. (1)

Una preoccupazione condivisa anche dal giovane direttore del Museo di Auwschwitz, Piotr M.A. Cywiński, il quale stima a un milione e trecentomila il numero dei visitatori che ogni anno giungono da ogni parte del mondo per visitare il complesso concentrazionario di Auschwitz-Birkenau. Sono visitatori che non provengono più, per la maggior parte, da Paesi che hanno un legame più o meno diretto con la Shoah, come gli Stati Uniti, Israele e naturalmente l’Europa, ma che arrivano persino dal Giappone, dalla Cina, dalla Corea (2), ovvero da Paesi lontanissimi geograficamente e non coinvolti nel genocidio, ma che riconoscono Auschwitz come il simbolo di un crimine che ha segnato profondamente la storia dell’umanità intera e intendono, con la visita al luogo, rendere omaggio al più grande cimitero ebraico, senza sepolture, al mondo.

Ebbene, proprio sulla presunta missione civilizzatrice del luogo, cioè sul fatto che la visita al campo sia in grado di incidere sull’etica del visitatore, Cywiński si dichiara alquanto scettico.

Occorre arrendersi alla brutalità dell’evidenza: è un fallimento. Milioni di persone vengono qui e non alzano un dito di fronte a ciò che accade nel mondo. Peggio ancora, non immaginano nemmeno di poter fare qualcosa”. (3)

Senza, tuttavia, voler negare la portata educativa dei viaggi della memoria, è innegabile constatare – ma quanti siamo a sottolinearlo? – che viviamo in un’epoca in cui l’azione simbolica troppo spesso tende a sostituirsi al pensiero. (4)

Per la maggior parte degli insegnanti, ma anche degli educatori ed operatori della memoria, persino negli ambienti ebraici, è diventata un’evidenza il ritenere indispensabile, per poter davvero capire la storia del genocidio e per poterne trasmettere la memoria (sottolineo la congiunzione “e”, dal momento che capire, studiare, conoscere e farsi portatore di questa conoscenza sono diventati un’unica azione o missione) occorre compiere un viaggio educativo, quasi iniziatico, ad Auschwitz. Un’esigenza talvolta eretta a dogma e sulla quale non c’è alcun dibattito in Italia (a differenza invece di altri Paesi come la Francia e la Germania).

“Vedere significa capire quello che i libri non possono spiegare» è una frase che molto spesso leggiamo nei resoconti dei nostri studenti al rientro dal viaggio.

Non è privo di significato osservare che oggi sono diventati rarissimi i progetti didattici dedicati allo studio della Shoah che non abbiano il viaggio ai lager nazisti come elemento fondante e centrale del percorso stesso.

 

Allora, sgomberiamo subito il campo da ogni equivoco : andare ad Auschwitz non è affatto indispensabile per la comprensione della storia, perché allora saremmo costretti, per analogia e per coerenza didattica, a sostenere che non possiamo capire nulla della guerra atomica se non ci rechiamo di persona a visitare Hiroshima o Nagasaki (e che dire allora della comprensione degli eventi più lontani nel tempo?) e la conoscenza della storia non passerebbe più dallo studio dei fatti e dall’analisi incrociata e critica delle fonti, ma si baserebbe puramente sull’impatto visivo dei luoghi dove si sono compiuti i fatti evocati. D’altro canto, ne sono ben consapevoli anche gli ideatori stessi del Treno per Auschwitz, quando scrivono: Visitare Auschwitz (…) non significa automaticamente comprendere : è solo un momento forte,anche da un punto di vista formativo,che va inserito all’interno di un più vasto progetto, che ponga al centro la storia, in particolare quella del totalitarismo nazista. (5)

Non c’è niente da vedere ad Auschwitz-Birkenau se non si sa quel che c’è da vedere, afferma la storica Annette Wieviorka (6), mettendo in luce il problema del processo di conoscenza delle giovani generazioni troppo sbilanciato sul vedere, ovvero sempre più all’insegna dell’Homo videns e sempre meno dell’Homo sapiens, tanto esse risultano sottoposte a stimoli visivi di ogni tipo, poco inclini alla lettura.

 

Avendo organizzato e guidato decine e decine di viaggi della memoria e pur convinta della loro straordinaria importanza didattica, non temo di essere accusata di revisionismo se tendo a dissociarmi da chi interpreta queste iniziative secondo una prospettiva teleologica, come se andare ad Auschwitz e vedere di persona quei luoghi potesse improvvisamente cambiarci, folgorarci direi, renderci migliori, più sensibili, perspicaci, fornendoci al contempo un potente e indelebile antidoto contro l’indifferenza, l’intolleranza, il razzismo, insomma il male.

Alberto Cavaglion, nei suoi dieci « Piccoli consigli a chi si mette in viaggio », afferma a giusto titolo che I migliori viaggiatori di solito sono persone sedentarie e che è possibile capire realmente la natura di un luogo senza mai andarci. (7) Anzi, spesso è più utile leggere un buon libro, non per forza legato agli eventi di Auschwitz o alla Shoah, per avvicinarsi all’argomento e predisporsi allo stato d’animo giusto di pazienza e di concentrazione.

 

D’altro canto, pur ammettendo che i viaggi ai luoghi della memoria siano parte integrante e sostanziale di un percorso conoscitivo e formativo per gli studenti, come misurarne gli effetti psicologici sui giovani visitatori? Perché occorre rendersi conto che noi adulti, talvolta inconsapevolmente, nell’organizzare i nostri modelli di insegnamento della Shoah e in primis il viaggio al campo, tendiamo a creare le condizioni per mettere in atto un processo di identificazione che spinge sulla compassione e sul senso di colpa. Il ragazzo o la ragazza che visita Auschwitz in gruppo deve confrontarsi con lo choc di vedere, spesso in poche ore e con rigide modalità organizzative imposte dall’altissimo afflusso di visitatori del campo, qualcosa che non si aspetta: il campo non è affatto quello che si immaginava, è difficile da leggere e decodificare poiché è stato parzialmente distrutto, poi ricostruito ma modificato nel tempo, vicinissimo ad abitazioni private, invaso da una natura in alcune stagioni molto bella e “solo” la visione degli oggetti delle vittime esposti nel Museo di Auschwitz (le vetrine coi capelli, gli occhiali, le scarpe, ecc) esercitano sul visitatore – e certo non solo su quello di giovane età – un reale effetto emozionante che fa scendere le lacrime e rimanere sbigottiti di fronte a tanto orrore.

Ed è allora, alla visione di quei poveri resti, che viene spontaneo pronunciare quel Mai più Auschwitz!, detto col cuore gonfio di emozione sincera, ma che, tuttavia, sembra destinato a rimanere espressione di una visione compassionevole e vittimistica della storia, legata a un’interpretazione della Shoah moraleggiante che coniuga il verbo ricordare all’imperativo.

 

Occorre rendersi maggiormente conto che c’è uno scarto sensibile tra quello che si vede oggi (gli oggetti, gli stracci, le ossa, metonimia dei corpi scomparsi) e quello a cui tali visioni rimandano (persone in carne e ossa, con una loro diversità fisica, anagrafica, linguistica, religiosa, politica….) e su questo scarto, a mio avviso, non sempre si lavora abbastanza coi nostri ragazzi. Chi erano questi ebrei uccisi? Cosa resta di loro oggi? Quelle che ricaviamo dalle tetre vetrine del Museo o dalle foto dei due campi, Auschwitz I e II, sono visioni di masse indistinte di poveri esseri, o cadaveri che non ci dicono nulla di quegli esseri umani. L’identificazione che mi viene, implicitamente, richiesta con la visita al Museo del campo mediante,appunto, il vedere a me pare del tutto malsana, fuorviante, profondamente inutile sotto il profilo educativo, perché io, visitatore del XXI secolo non posso sentirmi vicino a quei cadaveri o a quelle immagini di desolazione e disumanizzazione.

Ma soprattutto, visto che la Shoah è il genocidio degli ebrei d’Europa, è evidente che a Birkenau non troviamo nulla del mondo ebraico annientato nello sterminio, della sua cultura, della sua vitalità.  Nessun ebreo ha scelto di andarci, eppure con la sua distruzione nelle camere a gas quella che rimane impressa nella nostra memoria è la percezione degli ebrei uguali a povere vittime indistinte nella massa e non a persone reali e comuni. Quanti riflettono sul fatto, inquietante, che le immagini che sono esposte ad Auschwitz sono immagini viste con l’occhio del carnefice? Cioè noi vediamo gli ebrei condotti sul luogo di prigionia e di morte esattamente come i nazisti volevano che il mondo li vedesse, miseri, sporchi, brutti, senza più un barlume di umanità.

 

Per far comprendere ai giovani che cosa è andato distrutto nella Shoah, la preparazione a un viaggio ad Auschwitz dovrebbe prevedere un ampio spazio dedicato alla storia della cultura ebraica, dello straordinario apporto artistico, filosofico, musicale, letterario, politico dato alla formazione della civiltà europea.

Non si può spiegare la Shoah se prima non si è spiegato qualcosa della storia degli ebrei, della loro cultura, della loro religione (8).

Se il viaggio è accompagnato da un sopravvissuto che in quello stesso luogo ha vissuto la sua prigionia, è certo più facile per i nostri studenti riuscire a sentire qualcosa di quello che è stata la Shoah, perché attraverso il racconto del testimone è possibile vedere quello che non c’è più, immaginare quello che è successo e poiché il racconto trasmette sempre sofferenza, è inevitabile commuoversi e sentirsi partecipi dell’esperienza narrata. Le parole del testimone hanno soprattutto il merito di fornire, in qualche modo, un senso all’orrore, dirottando l’emozione vissuta al sentir rievocare fatti orribili, verso un’esperienza di vita e non solo di morte. Incontrare e ascoltare in diretta il racconto di un sopravvissuto che “ce l’ha fatta”, è uscito vivo da un lager, significa moltissimo per le giovani generazioni. Significa, innanzitutto, poter dare un nome, un volto, un’identità precisa alle centinaia di migliaia, ai milioni di vittime dell’annientamento nazista e fascista e sentire questa storia più vicina. Ma soprattutto il testimone, per il solo fatto di essere lì sul posto a rievocare le sofferenze patite, trasmette un messaggio di speranza e conforto ai giovani, nonché di resistenza morale (qualcuno è sopravvissuto, non tutto è andato perduto).

 

Tuttavia, resta il fatto che capire veramente un’esperienza così estrema è molto difficile. Prendere atto di questa difficoltà non significa affatto dare prova di insensibilità o di freddezza, al contrario, ci consente di affrontare lucidamente quel vago malessere e senso di colpa vissuto da alcuni nostri studenti, quando esprimono uno sgomento totale e quasi un’inconfessabile vergogna nel non sentire quello sconvolgimento che ci si aspettava da loro, come nota, ad esempio, la Consenti nel suo libro, quando rimane colpita da riflessioni di alcuni ragazzi più fredde e distaccate e, come tali, fuori dal coro delle lacrime e delle forti emozioni: “Sinceramente mi aspettavo che Auschwitz fosse ancora peggio” esordisce Marco che appare stranamente sollevato.(9)

Lo stesso sentimento espresso diversi anni prima da alcuni studenti riminesi al rientro da un viaggio a Mauthausen, Gusen, Ebensee e Hartheim : “…persino a noi che abbiamo avuto quest’opportunità, si sono presentate difficoltà nel comprendere la realtà di quel passato. Un passato la cui assurdità ha reso difficile accostarsi a questa tragedia ed impossibile comprenderla completamente. Ma che sia solo colpa dell’assurdità la nostra mancata sensibilità anche innanzi alle prime visite? Perché non avvertivamo quella stretta di stomaco, giusta reazione, al pensiero di calpestare la stessa terra, respirare la stessa aria, calpestata e respirata da cavie umane, vittime delle menti più spietate?… Disagio, dunque, per questa nostra condizione…Un muro impresentabile ci si presentava: come superarlo?” (10)

 

O si prepara la visita al lager, dedicandovi il giusto tempo per tracciare una cornice storica sufficientemente ampia nella quale inserire il progetto nazista di distruggere non solo gli ebrei, ma di schiavizzare e opprimere numerose altre categorie di persone, o si è complici della banalizzazione, perché il viaggio può produrre l’effetto paradossale di impermeabilizzare la coscienza (“dopo tutto, quel che ho visto non era poi così terribile…”).

Bisogna, soprattutto, lavorare proprio su questo scarto tra aspettativa e sentimento che molti ragazzi sentono quando visitano un lager, per analizzare il divario tra immaginario e realtà, tra mediatizzazione del fenomeno deportazione e sterminio da un lato e studio storico dall’altro.

E’ innegabile che la visione di Schindler’s List o de Il pianista producano sui giovani emozioni più forti di una visita a un campo di concentramento o a un luogo come Birkenau oggi.

Ma, appunto, sono le emozioni quelle che ricerchiamo per stimolare la conoscenza?

Troppe volte in questi anni ho sentito colleghi insegnanti affermare che i giovani di oggi sono talmente insensibili e indifferenti a tutto, assuefatti alla violenza che occorre provocare in loro, almeno inizialmente, un’emozione personale, un barlume di identificazione col proprio vissuto e la propria memoria, per poterli più facilmente condurre lungo un percorso di conoscenza della Shoah, affinché, cioè, non la considerino un’ennesima “barbosa lezione di storia”. Eppure le emozioni sono difficili da controllare e non c’è alcuna prova che un ragazzo commosso e sensibile sia disponibile a studiare, leggere, interrogarsi e a capire che cosa è stato e cosa ha significato il genocidio degli ebrei. Un insegnamento storico più distaccato non dovrebbe essere interpretato come segno di freddezza o di cinismo.

 

Una preoccupazione didattica che dovrebbe starci particolarmente a cuore nel preparare la lezione su Auschwitz dovrebbe essere quella di spiegare ai nostri studenti che la Shoah non era affatto un evento inevitabile. Vale a dire, abbandonare quella visione deterministica della storia che ci fa credere erroneamente che ci siano state delle cause per la Shoah. Non ci sono cause per un genocidio, né per un qualunque altro evento storico, ci sono, invece, delle origini, delle radici, degli elementi significativi, dei germi che se attecchiscono preparano un terreno culturale e politico propizio alla messa in atto del crimine, ma soprattutto ci sono delle responsabilità individuali e collettive precise.

E’ vero, come ha detto Adorno, che la barbarie è incisa profondamente nella modernità, ma è altrettanto vero che la Shoah è stata una delle possibilità della modernità, ma non era l’unica, ovvero le cose non dovevano per forza andare così come sono andate.

In un determinato contesto politico e a parità di situazioni e condizioni, le istituzioni, i governi, tutti coloro che esercitano una responsabilità pubblica, possono comportarsi in modi diversi. Basti fare un solo esempio: negli anni Trenta, quando si afferma il nazionalsocialismo, il Paese con il più forte tasso di antisemitismo e con un potenziale esplosivo di violenza era la Romania, non la Germania, la Romania che fin dall’Ottocento era stata teatro di feroci pogrom e massacri ai danni degli ebrei.

Invece è stato il Terzo Reich a concepire e ad attuare il genocidio. Indagare la questione del “perché la Germania?” (esiste un Sonderweg nella storia tedesca?) è uno degli elementi chiave della storia della Shoah.

 

Un altro rischio che occorrerebbe evitare nel fare un corso di storia sulla Shoah è quello di far coincidere la storia dell’ebraismo con la storia dell’antisemitismo, vale a dire una lunga serie di persecuzioni che vedrebbero gli ebrei come vittime predestinate, con un destino immodificabile che dall’antigiudaismo dell’Antichità condurrebbe in linea diretta, una tappa dopo l’altra, al genocidio. Anche qui, bisogna insistere con i nostri studenti nel demolire quell’immagine stereotipata e ben radicata nell’immaginario comune che vede l’ebreo come vittima eterna e che tende a far coincidere la persona con il gruppo (gli ebrei sono sempre gli stessi, sono tutti uguali,ecc).

 

Infine, focalizzare gran parte delle nostre energie didattiche sul viaggio ad Auschwitz potrebbe condurci a un altro errore, questa volta di interpretazione storica. Auschwitz non può essere inteso solamente come il punto più evoluto, in negativo, della tecnologia moderna, perché il problema, nel trasmettere la Shoah, non è tanto quello di porre l’accento sull’invenzione del gas come mezzo di uccisione, ma dell’uomo che accetta di buttare il gas per uccidere altri esseri umani, dell’uomo che non riconosce l’altro come appartenente allo stesso genere e lo distrugge come se fosse un insetto da debellare e sradicare dalla faccia della terra. Dell’affermarsi del concetto di bio-politica che tende a eliminare una minoranza come si amputa un corpo malato da un cancro. Perché ad Auschwitz non c’è morte, quello che viene distrutto non è solo il popolo ebraico, ma il concetto stesso di umanità. Il genocidio viene perpetrato cancellando sistematicamente ogni traccia dell’esistenza della vittima, sottraendola alla dimensione della morte per scaraventarla in quella della sparizione totale. Auschwitz, dunque, va spiegata come una delle possibilità del genere umano, di un’umanità che ha mostrato di che cosa è capace, tanto che “Ormai l’immagine dell’uomo è inseparabile da quella della camera a gas”, come ha ben sintetizzato il filosofo francese Georges Bataille. 

 

Conoscere la fine, come dice un celebre adagio cinese, non ci aiuta a comprendere l’inizio. L’ossessione su Auschwitz e la fretta con la quale molti percorsi storici di preparazione al viaggio cercano di arrivare, appunto, alla fine, rischiano di farci perdere di vista il fatto che almeno la metà delle vittime è stata uccisa nel corso di un solo anno, il 1942, dunque prima del funzionamento di Birkenau, inoltre non è morta nei campi, come molti ancora credono per ignoranza storica. La Shoah è stata anche la morte per fucilazione di massa nei territori a Est (le ultime ricerche degli storici tedeschi e francesi, dopo l’apertura degli archivi sovietici, stimano a 2 milioni di vittime i morti provocati dalle Einsatzgruppen, per la maggior parte ebrei, una cifra a lungo sotto stimata), nei camion a gas, o ancora per fame, malattie, privazioni nei ghetti, oppure nei centri di messa a morte dell’Aktion Reinhard (Chelmno, Belzec, Treblinka e Sobibòr) che non possono essere definiti propriamente come campi di sterminio.

 

Inoltre, l’unicità di Auschwitz-Birkenau e l’identificazione Auschwitz-Shoah (identificazione che occulta, come si è appena detto, tutto quanto è avvenuto prima del 1943) intese come l’apice di un percorso di uccisione che da mezzi arcaici (la fucilazione) è giunto al progresso tecnologico (la creazione dei grandi Krematorien di Birkenau, capaci di abbinare uccisione e distruzione del cadavere in un’unica struttura), rischia di individuare nella modernità l’unica caratteristica della Shoah, anzi la caratteristica per antonomasia di questo genocidio senza precedenti. Il che, da un lato, è vero, se si pensa alla produzione di cadaveri realizzata proprio a Birkenau su scala gigantesca (perché di produzione si tratta, si pensi all’uso del crematorio così come era concepito dai nazisti, le vittime vi entravano vive da una porta e ne uscivano dopo poche ore sotto forma di cenere, in un processo di messa a morte e di trasformazione della materia del tutto industriale).

 

D’altro canto, l’elemento chiave su cui insistere che rappresenta – più della modernità –la radicale novità della Shoah, sta, a mio avviso, in quell’antinomia tra razionalità e irrazionalità, modernità e arcaismo, con la quale tale fenomeno venne realizzato. Vale a dire, il contrasto tra un’accurata e metodica amministrazione burocratico-razionale, e il movente totalmente irrazionale, quell’antisemitismo paranoico, ossessivo e apocalittico che ha fatto sì che gli ebrei diventassero, agli occhi dei nazisti e dei loro collaboratori, il male assoluto. Gli ebrei, è bene ricordarlo, sono stati uccisi per la sola colpa di essere nati. La Shoah, come del resto gli altri genocidi, è stata un fine in sé, non un mezzo per ottenere qualcosa (ad es la conversione religiosa, l’espropriazione dei beni, la conquista di un territorio…)

Dobbiamo saper spiegare agli studenti, senza timore di complicare la lezione su Auschwitz. che nella politica nazista si mescolano arcaismo e modernità. Al millenarismo medievale dell’Impero tedesco si unisce la modernità, che si esplica attraverso l’affermazione di un potente apparato statale, quell’apparato che, tramite la burocrazia, l’organizzazione logistica, la copertura legislativa, permetterà al pensiero antisemita di concretizzarsi in genocidio. Giustificati dal poco tempo a disposizione, talvolta tendiamo a semplificare per timore che i nostri ragazzi non capiscano i troppi piani di lettura che la Shoah richiede.

 

La Shoah, che ci piaccia o no, sovverte i nostri modelli di pensiero, mette in crisi la nostra fiducia nella capacità raziocinante di comprendere a fondo un evento così mostruoso, i classici concetti della cultura umanistica impartita nelle scuole (11).

Dobbiamo riflettere su come l’ideologia nazista abbia permeato le masse, ma soprattutto su come degli uomini comuni, bravi padri di famiglia, si siano trasformati in carnefici, in freddi burocrati-assassini. Questo è un punto centrale per una discussione che affronti il funzionamento del meccanismo di gruppo quando l’omologazione, il consenso e il rispetto dell’autorità prevalgono rispetto alla capacità di raziocinio, dobbiamo analizzare le tecniche moderne del potere in una società di massa che tende a deresponsabilizzare l’azione del singolo e a isolare gli individui, rendendoli indifesi rispetto al potere dello Stato e spesso incapaci di agire e di opporsi criticamente.

 

Nell’epoca delle commemorazioni e del moltiplicarsi dei Giorni della Memoria, assistiamo da più parti a un fastidioso buonismo,a una retorica delle buone intenzioni che tradisce un’immagine oltremodo ingenua della storia, dal momento che Auschwitz non ha redento nessuno e non può ritenersi fondata la convinzione che la memoria sia una garanzia per evitare il ripetersi dei crimini, ovvero una sorta di vaccino per costruire un futuro democratico. Lo slogan “Mai più Auschwit!z” ha totalmente perso la sua forza, ripetuto ossessivamente da politici, ex deportati e giovani studenti, rischia di essere un grido che nessuno ascolta più veramente. Perché la lezione morale, la predica sul valore dei diritti dell’uomo, alla lunga, diventa un discorso automatico, che si ascolta educatamente e compostamente nelle commemorazioni, ma che poi si dimentica velocemente.

Occorre smettere di sostituire continuamente la riflessione storica e politica con la morale, come se l’insegnamento dei genocidi potesse ridursi a una predica per la tolleranza e la difesa dei diritti umani.

Eppure, siamo consapevoli che lo studio del genocidio degli ebrei rappresenta una fonte inesauribile di riflessione che tocca tutti gli aspetti della vita umana e il docente sa perfettamente che questo argomento implica un insegnamento che deve essere in grado di andare oltre l’esposizione rigorosa e puntuale dei fatti, arrivando cioè a provocare nei discenti una vera e propria crisi intellettuale. Una crisi che non deve intendersi, ovviamente, come una rivelazione mistica, ma come una predisposizione mentale che apra la mente al dubbio, alla ricerca, all’interrogativo profondo su di sé, sugli altri, sulla società, sui valori.

Se la lezione su Auschwitz, per quanto esatta e precisa, dovesse lasciare i suoi destinatari nello stesso stato in cui si trovavano prima di sapere, io preferirei personalmente che la lezione non fosse stata affatto tenuta, perché se essa non ha alcun impatto, non si tratta di una operazione inutile, ma, dal punto di vista della formazione morale e civica del destinatario, è una perdita. (12)

Ecco allora che la lezione di storia può declinarsi in lezione morale – evitando l’impasse di quel fastidioso moralismo che comunica con gli studenti al tempo imperativo come una sorta di catechismo laico (dobbiamo andare e vedere sul posto! non dobbiamo dimenticare! Dobbiamo diventare sentinelle della memoria!) – nella misura in cui tenta di fornire ai destinatari del nostro insegnamento non solo un senso a un evento inesplicabile nella sua mostruosità, ma anche – e qui sta proprio la sfida educativa da cogliere –una via di uscita possibile alla disperazione che pietrifica.

Se la storia della Shoah provoca innegabilmente in noi una resistenza tenace, perché pur ritenendolo un evento realmente accaduto nella sua mostruosità, lo consideriamo razionalmente inspiegabile e soprattutto eticamente inaccettabile, l’unica apertura di speranza che possiamo trasmettere come educatori è quella della scelta individuale.

La speranza per il nostro futuro sta proprio nella spiegazione centrale dell’insegnamento su Auschwitz: qualunque individuo confrontato con situazioni estreme può scegliere e la sua scelta non dipende mai dalla sua appartenenza politica di destra o di sinistra, né dal suo livello di istruzione o di cultura e nemmeno dalla sua appartenenza etnica o sociale. La facoltà di scelta dell’uomo dipende sempre e solo dalla sua capacità di ragionamento, di sapersi tirar fuori dal gruppo e di ascoltare la propria coscienza.

Non è affatto una lezione disperata quella sulla Shoah, al contrario, essa rivaluta pienamente la nostra capacità di saper pensare e di agire di conseguenza

 

Per concludere, cosa pensare dei viaggi di massa ad Auschwitz che oggi sono così popolari nel nostro Paese e hanno il merito di realizzare sinergie preziose tra istituzioni diverse? In un precedente contributo (13) col quale speravo di aprire un dibattito almeno all’interno degli Istituti storici coinvolti nella progettazione di attività di educazione alla memoria, li definivo criticamente come “pellegrinaggi laici”.

A Milano, nel gennaio di quest’anno, in occasione della presentazione del libro Binario 21. Un treno perAuschwitz al quale sono stata invitata, ne ho parlato con Emanuele Fusi, uno studente che aveva preso parte al viaggio col treno della memoria. “E anche se fosse solo un pellegrinaggio? In questa nostra epoca all’insegna dello scetticismo, dell’indifferenza, dell’individualismo, anche solo partecipare a un pellegrinaggio verso un luogo che si riconosce come simbolico e denso di significati non mi pare sia cosa da poco”.

Una riflessione acuta, che mi ha fatto ripensare alla definizione stessa di pellegrinaggio, come viaggio religioso nel senso che unisce i partecipanti in qualcosa di spirituale, attraverso un percorso di ricerca di una qualche verità che, oltre alla storia del passato, fornisca loro, in qualche modo, anche un senso della vita, in un entusiasmo collettivo derivato dalla consapevolezza di partecipare a qualcosa di grande (essere in tanti in un luogo importante).

Ecco allora che nelle nostre società sempre più lontane dal senso religioso e prive di punti spirituali di riferimento,  il viaggio ad Auschwitz come commemorazione collettiva assume il valore di bisogno di identità, permette di annodare dei legami con altri compagni e compagne, di sentirsi meno soli.

 

         Forse il problema è allora quello di andare oltre queste sensazioni profonde, sofferte e partecipate che tutti sembrano vivere in visita ai luoghi della memoria.

Ai giovani non dobbiamo per forza chiedere di diventare tutti “sentinelle della memoria” o testimoni a loro volta. La lezione di Auschwitz ci chiede altro: rivalutare pienamente la nostra capacità di saper pensare e di agire di conseguenza. Perché nella società contemporanea i germi che hanno preparato il disastro, i massacri di massa, sono ancora qui, potenzialmente fertili.

 

 

1) Georges Bensoussan, L’eredità di Auschwitz. Come ricordare?, Einaudi, 2002, p. XI

2) Si potrebbe parlare di “turismo concentrazionario”, come lo definisce polemicamente il filosofo engagé Alain Finkielkraut, (figlio di un ebreo sopravvissuto allo sterminio) che “arriva, guarda, fotografa e se ne va nel giro di poche ore”.

3) Jean-Yves Potel, La fin de l’innocence. La Pologne face à son passé juif, Autrement,2009, p. 176, traduzione di Laura Fontana

4) lo sostiene, ad esempio, Eric Ghozlan, direttore dell’OSE (Pôle Enfance de l’Oeuvre de Secours aux Enfants), in Zakor: Devoir de mémoire contre travail de mémoire, in www.jidv.com.

5)Alessandra Chiappano, Federico Gamberini, introduzione al progetto Un treno per Auschwitz, edizione 2009

6) Annette Wieviorka,Auschwitz, la mémoire d’un lieu, Robert Laffont 2005,p.17

7) articolo di Alberto Cavaglion sul sito http://www.istoreto.it/didattica/2701_viaggiareinformati_Cavaglion.pdf

8) Alberto Cavaglion, ibidem

9) Stefania Consenti, in Binario 21. Un treno per Auschwitz, Edizioni Paoline, 2010, p. 100

10) Laura Fontana (a cura di), Adesso sono nel vento. Rimini e la memoria: Dai viaggi-studio ai progetti didattici per le scuole, Comune di Rimini, L’Arengo quaderni, p. 41

11) Georges Bensoussan, ibidem, p.37

12) Jean-Michel Chaumont, Auschwitz oblige? In “Insegnare Auschwitz”, Bollati Boringhieri,1995, p. 53

13) Newsletter Istituto storico della Resistenza di Rimini, maggio 2008

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